Conferenza sull’etica

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 Conferenza sull’etica 


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Ludwig Wittgenstein

Conferenza sull’etica

 

La traduzione è stata condotta sulla seguente edizione: Ludwig Wittgenstein, “A Lecture on Ethics”, The Philosophical Review, vol. 74, n. 1, gennaio 1965, pp. 3-12. Il testo originale è disponibile secondo i termini della licenza Creative Commons Attribuzione – Non commerciale 4.0 Internazionale nel suo paese d’origine, gli Stati Uniti d’America, ed è nel pubblico dominio in tutti i paesi dove i diritti di proprietà intellettuale scadono 70 anni o meno dopo la morte dell'autore. Questa traduzione è pubblicata secondo i termini della licenza Creative Commons Attribuzione – Condividi allo stesso modo 4.0 Internazionale.


Ludwig Wittgenstein

Conferenza sull’etica


Prima che io inizi a parlare di quello che è propriamente il mio argomento, permettetemi di fare alcune considerazioni introduttive. So che avrò grosse difficoltà nel comunicarvi i miei pensieri e ritengo che esse, in parte, possano essere ridotte di entità accennandovi in anticipo.

La prima, di cui quasi non c’è bisogno di parlare, è che l’inglese non è la mia lingua madre e di conseguenza la mia espressione manca spesso di quella precisione e di quella finezza che sarebbero desiderabili quando si tratta un argomento difficile. Non posso fare altro che chiedervi di facilitare il mio compito cercando di cogliere ciò che intendo dire a dispetto degli errori di grammatica che farò continuamente.

La seconda difficoltà che voglio menzionare è questa: probabilmente molti di voi sono venuti a questa mia conferenza con aspettative leggermente sbagliate. E per correggervi su questo punto dirò alcune parole circa la ragione per cui ho scelto l’argomento che ho scelto. Quando il vostro ex segretario mi ha fatto l’onore di chiedermi di leggere una memoria alla vostra società, il mio primo pensiero è stato che l’avrei fatto senz’altro; il mio secondo pensiero è stato che, se mi era data l’opportunità di parlare di fronte a voi, avrei dovuto parlare di qualcosa che tenevo a comunicarvi, che non avrei dovuto sprecare quest’opportunità per farvi una lezione, ad esempio, sulla logica. Parlo di spreco perché per esporvi una questione scientifica avrei bisogno di un intero corso e non di una memoria di un’ora. Un’altra alternativa sarebbe stata proporvi quella che si chiama una conferenza di divulgazione scientifica, cioè una conferenza volta a farvi credere di capire qualcosa che in realtà non capite, e a gratificare un desiderio che io ritengo sia tra i più meschini della gente moderna, cioè la curiosità superficiale intorno alle più recenti scoperte della scienza. Ho rifiutato queste alternative e ho deciso di parlarvi di un argomento che mi sembra essere di rilevanza generale, nella speranza che possa aiutarvi a chiarire i vostri pensieri in proposito (anche qualora doveste essere completamente in disaccordo con ciò che dirò).

La mia terza e ultima difficoltà è propria, in effetti, della maggior parte delle conferenze di filosofia di una certa lunghezza, ed è questa: l’uditore è incapace di vedere sia la strada lungo cui viene condotto sia la meta a cui essa conduce. In altre parole, egli o pensa: «Comprendo tutto ciò che egli dice, ma dove mai starà cercando di arrivare?», oppure pensa: «Vedo dove sta cercando di arrivare, ma in quale modo avrà mai in mente di farlo?». Non posso far altro che chiedervi di essere pazienti e sperare che alla fine potrete vedere sia la strada, sia dove porta.


Ma è ora di cominciare. Il mio argomento, come sapete, è l’etica, e io abbraccerò la spiegazione di questo termine che il Professor Moore ha dato nel suo libro Principia Ethica. Egli scrive: «L’etica è la ricerca generale intorno a ciò che è buono». Ora, io userò il termine “etica” in un senso un po’ più ampio; in un senso, in effetti, che include quella che ritengo essere la parte più essenziale di ciò che generalmente viene chiamato “estetica”. E per farvi vedere quanto più chiaramente possibile quale ritengo sia l’oggetto dell’etica, vi metterò di fronte un certo numero di espressioni più o meno sinonime ciascuna delle quali potrebbe essere sostituita alla definizione citata; enumerandole intendo produrre lo stesso tipo di effetto che Galton produsse quando fotografò un certo numero di volti diversi sulla stessa lastra fotografica per ottenere l’immagine dei tratti tipici che tutti avevano in comune. E come mostrandovi una simile foto collettiva potrei farvi vedere qual è il tipico volto, ad esempio, cinese, così esaminando la serie di sinonimi che vi metterò di fronte sarete in grado, spero, di vedere i tratti caratteristici che essi hanno tutti in comune; e questi sono i tratti caratteristici dell’etica. Ora, anziché dire “L’etica è la ricerca intorno a ciò che è buono” avrei potuto dire che l’etica è la ricerca intorno ha ciò che ha valore, o intorno a ciò che è realmente importante, o avrei potuto dire che l’etica è la ricerca intorno al senso della vita o intorno a ciò che rende la vita degna di essa essere vissuta, o intorno al modo giusto di vivere. Ritengo che, guardando tutte queste frasi, vi farete più o meno un’idea ciò di cui si occupa l’etica.

Ora, la prima cosa che colpisce in tutte queste espressioni è che ciascuna di esse è in realtà usata in due sensi molto diversi. Li chiamerò il senso triviale, o relativo, da una parte e il senso etico, o assoluto, dall’altra. Se per esempio dico che questa è una buona sedia, ciò significa che essa serve a un certo scopo predeterminato, e la parola “buono” qui ha significato solo nella misura in cui questo scopo è stato fissato in precedenza. In effetti la parola “buono”, nel senso relativo, vuol dire solamente “tale da raggiungere un certo standard predeterminato”. Perciò quando diciamo che quest’uomo è un buon pianista intendiamo che egli è in grado di suonare pezzi di un certo grado di difficoltà con un certo grado di destrezza. E similmente se dico che è importante per me non prendere un raffreddore intendo che prendere un raffreddore produce nella mia vita certi disagi suscettibili di descrizione; e se dico che questa è la strada giusta intendo che è la strada giusta rispetto a una certa meta. Usate in questo modo, queste espressioni non presentano alcuna difficoltà o problema profondo. Ma questo non è il modo in cui le usa l’etica. Supponiamo che io fossi in grado di giocare a tennis e che uno di voi mi vedesse giocare e dicesse “Be’, giochi piuttosto male”; e supponiamo che io rispondessi “Lo so, gioco male, ma non voglio giocare meglio di così”; allora tutto ciò che l’altro potrebbe dire sarebbe “Ah, in questo caso va bene”. Ma supponiamo che io avessi detto a uno di voi un’abominevole menzogna e che costui venisse da me e dicesse “Ti comporti come una bestia”; e supponiamo che io di rimando dicessi “So che mi comporto male, ma insomma non voglio comportarmi meglio di così”; allora potrebbe egli dire “Ah, in questo caso va bene”? Certamente no; egli direbbe “Be’, dovresti volerti comportare meglio”. Eccovi un giudizio assoluto di valore, laddove il primo esempio era un caso di giudizio relativo. L’essenza di questa differenza sembra essere ovviamente questa: ogni giudizio di valore relativo è una mera considerazione di fatto e può perciò essere messa in una forma tale da perdere ogni apparenza di un giudizio di valore: invece di dire “Questa à la direzione giusta per Granchester”, potrei ugualmente dire “Questa è la direzione giusta da prendere se si vuole arrivare a Granchester nel più breve tempo possibile”; “Quest’uomo è un buon corridore” vuol dire semplicemente che egli percorre un certo numero di miglia in un certo numero di minuti, ecc. Ora ciò che io vorrei sostenere è che, benché si possa mostrare che tutti i giudizi di valore relativo sono mere considerazioni di fatto, nessuna considerazione di fatto può mai essere, o implicare, un giudizio di valore assoluto.

Permettetemi di spiegare: supponiamo che uno di voi fosse onnisciente, e di conseguenza conoscesse tutti i movimenti di tutti i corpi del mondo, inerti o viventi, e che conoscesse anche tutti gli stati mentali di tutti gli esseri umani che abbiano mai vissuto, e supponiamo che quest’uomo scrivesse tutto ciò che sa in un grande libro; allora questo libro conterrebbe l’intera descrizione del mondo; e quello che voglio dire è che questo libro non conterrebbe niente che noi chiameremmo un giudizio etico, e nemmeno niente che implicherebbe logicamente un tale giudizio. Esso naturalmente conterrebbe tutti i giudizi relativi di valore e tutte le proposizioni scientifiche vere e, in effetti, tutte le proposizioni vere che possono essere costruite. Ma tutti i fatti descritti sarebbero, per così dire, sullo stesso piano, e allo stesso modo tutte le proposizioni sarebbero sullo stesso piano.

Non vi sono proposizioni che siano sublimi, importanti o triviali in alcun senso assoluto. Forse alcuni di voi saranno d’accordo con me su questo punto e torneranno loro in mente le parole di Amleto: “Niente è buono né cattivo, se non nel pensiero”. Ma anche questo potrebbe condurre a un fraintendimento. Ciò che dice Amleto sembra implicare che il buono e il cattivo, pur non essendo qualità del mondo fuori di noi, siano attributi dei nostri stati mentali. Ma quello che intendo io è che uno stato mentale, nella misura in cui con ciò intendiamo un fatto che possiamo descrivere, non è buono o cattivo in alcun senso etico. Se per esempio nel nostro libro del mondo leggiamo la descrizione di un assassinio, con tutti i suoi dettagli fisici e psicologici, la mera descrizione di questi fatti non conterrà niente che si possa chiamare una proposizione etica. L’assassinio sarà esattamente sullo stesso piano di ogni altro evento, per esempio la caduta di un sasso. Certamente la lettura di questa descrizione potrà darci dolore, o rabbia, o qualsiasi altra emozione, e potremo leggere del dolore o della rabbia causati da questo assassinio in altre persone che ne hanno sentito parlare, ma in ciò si troveranno semplicemente fatti, fatti e fatti, e non vi si troverà niente che abbia a che fare con l’etica.

E devo dire che, se rifletto su ciò che l’etica realmente dovrebbe essere se una tale scienza esistesse, questo risultato mi sembra del tutto ovvio. Mi sembra ovvio che niente di ciò che potremmo mai pensare o dire sarebbe il punto. Che non possiamo scrivere un libro scientifico il cui oggetto sia intrinsecamente sublime e superiore a ogni altro oggetto. Riesco a descrivere i miei sentimenti solo con questa metafora: se un uomo potesse scrivere un libro sull’etica che fosse davvero un libro sull’etica, questo libro distruggerebbe, con un’esplosione, tutti gli altri libri del mondo.

Le nostre parole, usate come le usiamo nella scienza, sono vascelli capaci solo di contenere e condurre in porto significato e senso, significato e senso naturali. L’etica, se è qualcosa, è soprannaturale, e le nostre parole non possono esprimere che fatti; come una tazza non può contenere che una tazza d’acqua, dovessi versarcene sopra un gallone.

Ho detto che per quanto riguarda fatti e proposizioni vi è solo valore relativo e bene relativo, giustizia relativa eccetera. Permettetemi, prima di proseguire, di illustrare questo punto con un altro esempio piuttosto ovvio. La strada giusta è la strada che conduce a una destinazione arbitrariamente predeterminata ed è perfettamente chiaro a tutti noi che non ha senso parlare della strada giusta a prescindere da una tale meta predeterminata. Cerchiamo di capire cosa potremmo mai voler dire con l’espressione “la strada assolutamente giusta”. Immagino che sarebbe la strada che tutti, quando la vedessero, in modo logicamente necessario dovrebbero percorrere, vergognandosi qualora non lo facessero. E similmente il bene assoluto, se fosse uno stato di cose descrivibile, sarebbe uno stato di cose che tutti, indipendentemente dai loro gusti e dalle loro inclinazioni, necessariamente perseguirebbero, sentendosi in colpa se non lo perseguissero. E voglio dire che un tale stato di cose è una chimera. Nessuno stato di cose ha, in sé, ciò che vorrei chiamare il potere di coercizione di un giudice assoluto.

Allora che cos’hanno in mente coloro che, come me, sono ancora tentati di usare espressioni come “bene assoluto”, “valore assoluto”, eccetera? Cos’abbiamo in mente e cosa tentiamo di esprimere? È naturale che ogni volta che cerco di chiarire questo punto a me stesso io richiami alla mente casi in cui sicuramente userei tali espressioni, e allora mi trovo nella situazione in cui sareste voi se, per esempio, io vi facessi una lezione sulla psicologia del piacere. Ciò che voi fareste in tale circostanza sarebbe provare a rievocare qualche situazione tipica in cui avete sempre provato piacere. Poiché, tenendo a mente questa situazione, tutto ciò che vi direi diventerebbe concreto e, per così dire, controllabile. Qualcuno sceglierebbe magari come esempio paradigmatico la sensazione di quando si fa una passeggiata in una bella giornata estiva. È in questa situazione che io mi trovo se voglio fissare la mente su ciò che intendo per valore assoluto o etico. E qui, nel mio caso, accade sempre che a presentarmisi sia l’idea di un’esperienza particolare che di conseguenza è, in un certo senso, la mia esperienza per eccellenza: è questa la ragione per cui, parlandovi ora, userò questa esperienza come esempio primo e principale. (Come ho detto, questa è una questione del tutto personale e altri troverebbero più incisivi altri esempi.) Descriverò quest’esperienza allo scopo, se possibile, di farvi rievocare la stessa esperienza, o esperienze simili, così che possiamo avere un terreno comune per la nostra indagine.

Credo che il modo migliore di descriverla sia dire che quando ce l’ho io mi meraviglio dell’esistenza del mondo. E sono allora incline a usare formule come “Com’è straordinario che esista qualcosa” o “Com’è straordinario che esista il mondo”.

Farò subito menzione di un’altra esperienza che pure conosco e con cui forse altri di voi hanno familiarità: si tratta di quella che si potrebbe chiamare l’esperienza di sentirsi assolutamente al sicuro. Intendo lo stato mentale in cui uno è portato a dire “Sono al sicuro: qualunque cosa accada, niente può farmi del male”.

Ora permettetemi di esaminare queste esperienze, poiché, credo, esibiscono proprio le caratteristiche che stiamo cercando di portare a chiarezza. E qui, per prima cosa, devo dire che l’espressione verbale che diamo a queste esperienze è insensata! Se dico “Mi meraviglio dell’esistenza del mondo” sto usando il linguaggio in modo improprio. Lasciate che mi spieghi: ha un senso perfettamente chiaro e corretto dire che mi meraviglio che qualcosa si verifichi; tutti comprendiamo cosa significa dire che mi meraviglio della taglia di un cane che è più grosso di qualunque altro cane io abbia mai visto; o di qualunque cosa che, nel senso comune della parola, è straordinaria. In ogni caso del genere mi meraviglio che si verifichi qualcosa di cui posso concepire che non si verifichi. Mi meraviglio della taglia di questo cane perché posso concepire un cane di una taglia diversa, cioè ordinaria, di cui non mi meraviglierei. Dire “Mi meraviglio che questo e questo si verifichi” ha senso solo se posso immaginare che non si verifichi. In questo senso ci si può meravigliare dell’esistenza, per esempio, di una casa quando la si rivede dopo molto tempo e si era immaginato che intanto essa fosse stata demolita. Ma è insensato dire che mi meraviglio dell’esistenza del mondo, perché non posso immaginare che non esista. Posso certamente meravigliarmi del fatto che il mondo intorno a me sia così com’è. Se per esempio avessi quest’esperienza mentre guardo un cielo azzurro, potrei meravigliarmi del fatto che il cielo sia azzurro contrapponendo questo caso a quello in cui è nuvoloso. Ma non è questo che intendo. Mi sto meravigliando del fatto che il cielo sia ciò che è. Si potrebbe essere tentati di dire che ciò di cui mi sto meravigliando è una tautologia, cioè che il cielo sia blu o non blu. Ma è appunto insensato dire che ci si meraviglia di una tautologia. Lo stesso vale per quell’altra esperienza che ho citato, l’esperienza dell’assoluta sicurezza. Sappiamo tutti cosa significa essere al sicuro nella vita ordinaria. Sono al sicuro nella mia stanza, quando non posso essere investito da un bus. Sono al sicuro se ho avuto la pertosse e dunque non posso prenderla di nuovo. Essere al sicuro vuol dire essenzialmente che è fisicamente impossibile che certe cose mi accadano, e di conseguenza è insensato dire che sono al sicuro qualunque cosa accada. Questo è un uso improprio della parola “sicuro”, così come l’altro esempio era un uso improprio della parola “esistenza” o “meravigliarsi”.

Ciò che voglio farvi comprendere è che un certo caratteristico uso improprio del nostro linguaggio pervade tutte le espressioni etiche e religiose. Tutte queste espressioni sembrano, a prima vista, semplici similitudini. Dunque sembra che, quando usiamo la parola “giusto” in un senso etico, benché ciò a cui ci riferiamo non sia giusto nel senso triviale della parola, si tratti di qualcosa di simile; e quando diciamo “È un brav’uomo”, anche se la parola “buono” non vuol dire qui ciò che vuol dire nella frase “È un bravo calciatore”, sembra esserci tra i due usi qualche somiglianza. E quando diciamo “La vita di quest’uomo ha valore” non lo intendiamo nello stesso senso in cui parleremmo di qualche gioiello di valore, ma sembra esserci una sorta di analogia. Tutti i termini religiosi sembrano, in questo senso, essere usati come similitudini, o allegoricamente. Poiché quando parliamo di Dio e diciamo che vede tutto, e quando ci inginocchiamo e lo preghiamo, tutti i nostri termini e tutte le nostre azioni sembrano essere parte di una grande ed elaborata allegoria che lo rappresenta come un essere umano di grande potenza di cui cerchiamo di guadagnarci la grazia, eccetera eccetera. Ma questa allegoria descrive anche le esperienze a cui mi riferivo poco fa. Poiché la prima è, credo, esattamente ciò a cui si è fatto riferimento quando si è detto che Dio ha creato il mondo; e l’esperienza di assoluta sicurezza è stata descritta dicendo che ci sentiamo al sicuro nelle mani di Dio. Una terza esperienza dello stesso tipo è l’esperienza di sentirsi colpevoli, e di nuovo essa è stata descritta dall’espressione per cui Dio disapprova la nostra condotta.

Perciò sembra che nel linguaggio etico e religioso usiamo costantemente similitudini. Ma una similitudine dev’essere una similitudine di qualcosa. E se posso descrivere un fatto per mezzo di una similitudine devo essere anche in grado di abbandonare la similitudine e di descrivere i fatti senza di essa. Ora, nel nostro caso, appena cerchiamo di abbandonare la similitudine e di enunciare semplicemente i fatti che le stanno dietro, ci accorgiamo che fatti del genere non vi sono. E così quella che a prima vista sembrava una similitudine ora sembra un mero nonsenso. A coloro che le hanno avute, per esempio a me, le tre esperienze che vi ho menzionato (e avrei potuto aggiungerne altre) sembrano avere in qualche senso un valore intrinseco, assoluto. Ma poiché dico che esse sono esperienze, certamente esse sono fatti; hanno avuto luogo in un punto del tempo e dello spazio, hanno avuto una certa durata definita e di conseguenza possono essere descritte. E così, in base a quanto ho detto pochi minuti fa, devo ammettere che è insensato dire che hanno valore assoluto. E renderò tale affermazione ancora più dura dicendo: “È paradossale che un’esperienza (un fatto) sembri avere un valore soprannaturale”.

Ora, c’è un modo in cui sarei tentato di far fronte a questo paradosso. Permettetemi innanzitutto di considerare ancora una volta la nostra prima esperienza, quella della meraviglia per l’esistenza del mondo, e permettetemi di descriverla in modo leggermente diverso. Sappiamo tutti cosa nella vita ordinaria verrebbe chiamato “un miracolo”. Ovviamente non si tratta che di un evento senza precedenti. Ora, supponete che accadesse un evento del genere. Prendete il caso che a uno di voi crescesse all’improvviso una testa di leone e che egli iniziasse a ruggire. Certamente non si potrebbe immaginare una cosa più straordinaria di questa. Ora, non appena ci fossimo riavuti dalla sorpresa, ciò che io suggerirei sarebbe di chiamare un dottore per fare in modo che il caso venga esaminato scientificamente. Se ciò non volesse dire fargli del male, vorrei che egli venisse vivisezionato. E allora il miracolo che fine farebbe? È chiaro infatti che tutto ciò che v’è di miracoloso nella cosa scompare quando guardiamo a essa in questo modo; a meno che ciò che intendiamo con il termine “miracoloso” sia solo che un fatto non è ancora stato spiegato dalla scienza, il che a sua volta significa che finora non siamo riusciti a categorizzarlo insieme ad altri fatti in un sistema scientifico. Questo mostra che è assurdo dire: “La scienza ha provato che i miracoli non esistono”. La verità è che il modo scientifico di guardare a un fatto non è il modo in cui si guarda a esso come a un miracolo. Qualunque fatto che possiate immaginare, infatti, non è in se stesso miracoloso nel senso assoluto di questo termine. Adesso vediamo infatti che finora abbiamo impiegato la parola “miracolo” in un senso relativo e in uno assoluto. E così posso descrivere l’esperienza di meravigliarsi dell’esistenza del mondo dicendo: si tratta dell’esperienza di vedere il mondo come un miracolo. Ebbene, sono tentato di dire che l’espressione corretta nel linguaggio per il miracolo dell’esistenza non è una proposizione nel linguaggio, ma l’esistenza stessa del linguaggio. Ma cosa significa dunque essere consapevoli di questo miracolo in alcuni momenti e non in altri? Traslando l’espressione del miracolo da un’espressione per mezzo del linguaggio all’espressione grazie all’esistenza del linguaggio, infatti, non ho detto altro se non che non possiamo esprimere ciò che vogliamo esprimere e che tutto ciò che diciamo su ciò che è miracoloso in senso assoluto rimane nonsenso.

Ora, la risposta a tutto ciò sembrerà perfettamente chiara a molti di voi. Voi direte: be’, se certe esperienze ci inducono costantemente nella tentazione di attribuir loro una qualità che chiamiamo valore e importanza assoluti, o etici, questo mostra semplicemente che con queste parole non intendiamo qualcosa di insensato; che dopo tutto ciò che intendiamo dicendo che un’esperienza ha valore assoluto è solo un fatto come altri fatti; e che tutto questo vuol dire soltanto che non siamo ancora riusciti a trovare l’analisi logica corretta di ciò che intendiamo con le nostre espressioni etiche e religiose. Ora, quando mi viene proposta questa considerazione, io all’improvviso vedo chiaramente, quasi in un lampo di luce, non solo che nessuna descrizione che io sia in grado di immaginare sarebbe adeguata allo scopo di descrivere ciò che intendo con “valore assoluto”, ma che respingerei ogni descrizione dotata di significato che chiunque potrebbe mai suggerire, ab initio, proprio sulla base del fatto che sia dotata di significato. Cioè: ora vedo che queste espressioni insensate non erano insensate perché non avevo ancora trovato le espressioni corrette, ma che la loro insensatezza era la loro essenza stessa. Non volevo in effetti far altro, con esse, che andare oltre il mondo, e cioè oltre il linguaggio dotato di significato.

Tutta la mia tendenza, e, credo, la tendenza di tutti gli uomini che hanno mai provato a scrivere o a parlare di etica o di religione consisteva nell’andare a sbattere contro i limiti del linguaggio. Questo andare a sbattere contro i limiti della nostra gabbia è perfettamente, assolutamente disperato. L’etica, nella misura in cui nasce dal desiderio di dire qualcosa circa il senso ultimo della vita, il bene assoluto, il valore assoluto, non può essere una scienza. Ciò che essa dice non aggiunge alcunché alla nostra conoscenza, in alcun senso. Ma è un documento di una tendenza della mente umana che io personalmente non posso fare a meno di rispettare profondamente, e che non vorrei ridicolizzare per nulla al mondo.