Conferenza sull’etica: Difference between revisions

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Ora, ciò che voglio farvi comprendere è che un certo caratteristico uso improprio del nostro linguaggio pervade ''tutte'' le espressioni etiche e religiose. Tutte queste espressioni ''sembrano'', a prima vista, semplici ''similitudini''. Dunque sembra che, quando usiamo la parola “giusto” in un senso etico benché ciò a cui ci riferiamo non sia giusto nel senso triviale della parola, si tratti di qualcosa di simile; e quando diciamo “È un brav’uomo”, anche se la parola “buono” non vuol dire qui ciò che vuol dire nella frase “È un bravo calciatore”, sembra esserci tra i due usi qualche somiglianza. E quando diciamo “La vita di quest’uomo ha valore” non lo intendiamo nello stesso senso in cui parleremmo di qualche gioiello di valore, ma sembra esserci una sorta di analogia. Ora tutti i termini religiosi sembrano, in questo senso, essere usati come similitudini, o allegoricamente. Poiché quando parliamo di Dio e diciamo che vede tutto, e quando ci inginocchiamo e lo preghiamo, tutti i nostri termini e tutte le nostre azioni sembrano essere parte di una grande ed elaborata allegoria che lo rappresenta come un essere umano di grande potenza di cui cerchiamo di guadagnarci la grazia, eccetera eccetera. Ma questa allegoria descrive anche le esperienze a cui mi riferivo poco fa. Poiché la prima è, credo, esattamente ciò a cui si è fatto riferimento quando si è detto che Dio ha creato il mondo; e l’esperienza di assoluta sicurezza è stata descritta dicendo che ci sentiamo al sicuro nelle mani di Dio. Una terza esperienza dello stesso tipo è l’esperienza di sentirsi colpevoli, e di nuovo essa è stata descritta dall’espressione per cui Dio disapprova la nostra condotta.
Ora, ciò che voglio farvi comprendere è che un certo caratteristico uso improprio del nostro linguaggio pervade ''tutte'' le espressioni etiche e religiose. Tutte queste espressioni ''sembrano'', a prima vista, semplici ''similitudini''. Dunque sembra che, quando usiamo la parola “giusto” in un senso etico benché ciò a cui ci riferiamo non sia giusto nel senso triviale della parola, si tratti di qualcosa di simile; e quando diciamo “È un brav’uomo”, anche se la parola “buono” non vuol dire qui ciò che vuol dire nella frase “È un bravo calciatore”, sembra esserci tra i due usi qualche somiglianza. E quando diciamo “La vita di quest’uomo ha valore” non lo intendiamo nello stesso senso in cui parleremmo di qualche gioiello di valore, ma sembra esserci una sorta di analogia. Ora tutti i termini religiosi sembrano, in questo senso, essere usati come similitudini, o allegoricamente. Poiché quando parliamo di Dio e diciamo che vede tutto, e quando ci inginocchiamo e lo preghiamo, tutti i nostri termini e tutte le nostre azioni sembrano essere parte di una grande ed elaborata allegoria che lo rappresenta come un essere umano di grande potenza di cui cerchiamo di guadagnarci la grazia, eccetera eccetera. Ma questa allegoria descrive anche le esperienze a cui mi riferivo poco fa. Poiché la prima è, credo, esattamente ciò a cui si è fatto riferimento quando si è detto che Dio ha creato il mondo; e l’esperienza di assoluta sicurezza è stata descritta dicendo che ci sentiamo al sicuro nelle mani di Dio. Una terza esperienza dello stesso tipo è l’esperienza di sentirsi colpevoli, e di nuovo essa è stata descritta dall’espressione per cui Dio disapprova la nostra condotta.


Perciò sembra che nel linguaggio etico e religioso usiamo costantemente similitudini. Ma una similitudine dev’essere una similitudine di ''qualcosa''. E se posso descrivere un fatto per mezzo di una similitudine devo essere anche in grado di abbandonare la similitudine e di descrivere i fatti senza di essa. Ora, nel nostro caso, appena cerchiamo di abbandonare la similitudine e di enunciare semplicemente i fatti che le stanno dietro, ci accorgiamo che fatti del genere non vi sono. E così quella che a prima vista sembrava una similitudine ora sembra un mero nonsenso. A coloro che le hanno avute, per esempio a me, le tre esperienze che vi ho menzionato (e avrei potuto aggiungerne altre) sembrano avere in qualche senso un valore intrinseco, assoluto. Ma poiché dico che esse sono esperienze, certamente esse sono fatti; hanno avuto luogo in un punto del tempo e dello spazio, hanno avuto una certa durata definita e di conseguenza possono essere descritte. E così, in base a quanto ho detto pochi minuti, fa devo ammettere che è insensato dire che hanno valore assoluto. E renderò tale affermazione ancora più dura dicendo: “È paradossale che un’esperienza (un fatto) debba sembrare dotata di un valore soprannaturale”.
Perciò sembra che nel linguaggio etico e religioso usiamo costantemente similitudini. Ma una similitudine dev’essere una similitudine di ''qualcosa''. E se posso descrivere un fatto per mezzo di una similitudine devo essere anche in grado di abbandonare la similitudine e di descrivere i fatti senza di essa. Ora, nel nostro caso, appena cerchiamo di abbandonare la similitudine e di enunciare semplicemente i fatti che le stanno dietro, ci accorgiamo che fatti del genere non vi sono. E così quella che a prima vista sembrava una similitudine ora sembra un mero nonsenso. A coloro che le hanno avute, per esempio a me, le tre esperienze che vi ho menzionato (e avrei potuto aggiungerne altre) sembrano avere in qualche senso un valore intrinseco, assoluto. Ma poiché dico che esse sono esperienze, certamente esse sono fatti; hanno avuto luogo in un punto del tempo e dello spazio, hanno avuto una certa durata definita e di conseguenza possono essere descritte. E così, in base a quanto ho detto pochi minuti fa, devo ammettere che è insensato dire che hanno valore assoluto. E renderò tale affermazione ancora più dura dicendo: “È paradossale che un’esperienza (un fatto) debba sembrare dotata di un valore soprannaturale”.


Ora, c’è un modo in cui sarei tentato di far fronte a questo paradosso. Permettetemi innanzitutto di considerare ancora una volta la nostra prima esperienza, quella della meraviglia per l’esistenza del mondo, e permettetemi di descriverla in modo leggermente diverso. Sappiamo tutti cosa nella vita ordinaria verrebbe chiamato “un miracolo”. Ovviamente si tratta semplicemente di un evento come non ne abbiamo mai visto uno. Ora, supponete che accada un evento del genere. Prendete il caso che a uno di voi crescesse all’improvviso una testa di leone e che egli iniziasse a ruggire. Certamente non si potrebbe immaginare una cosa più straordinaria di questa. Ora, non appena ci fossimo riavuti dalla sorpresa, ciò che io suggerirei sarebbe di chiamare un dottore e fare in modo che il caso venga esaminato scientificamente. Se ciò non volesse dire fargli del male, vorrei che egli venisse vivisezionato. E allora il miracolo che fine farebbe? Poiché è chiaro che tutto ciò che v’è di miracoloso nella cosa scompare quando guardiamo a essa in questo modo; a meno che ciò che intendiamo con questo termine sia meramente che un fatto non è ancora stato spiegato dalla scienza, il che a sua volta significa che finora non siamo riusciti a categorizzare questo fatto insieme ad altri in un sistema scientifico. Questo mostra che è assurdo dire: “La scienza ha provato che i miracoli non esistono”. La verità è che il modo scientifico di guardare a un fatto non è il modo in cui si guarda a esso come a un miracolo. Qualunque fatto che possiate immaginare, infatti, non è in se stesso miracoloso nel senso assoluto di questo termine. Adesso vediamo infatti che finora abbiamo impiegato la parola “miracolo” in un senso relativo e in uno assoluto. E ora descriverò l’esperienza di meravigliarsi dell’esistenza del mondo dicendo: si tratta dell’esperienza di vedere il mondo come un miracolo. Ebbene, sono tentato di dire che l’espressione corretta nel linguaggio per il miracolo dell’esistenza, benché non sia alcuna proposizione ''nel'' linguaggio, è l’esistenza stessa del linguaggio. Ma cosa significa dunque essere consapevoli di questo miracolo in alcuni momenti e non in altri? Traslando l’espressione del miracolo da un’espressione ''per mezzo del'' linguaggio all’espressione ''grazie all’esistenza del'' linguaggio, infatti, non ho detto altro se non che non possiamo esprimere ciò che vogliamo esprimere e che tutto ciò che ''diciamo'' su ciò che è miracoloso in senso assoluto rimane nonsenso.
Ora, c’è un modo in cui sarei tentato di far fronte a questo paradosso. Permettetemi innanzitutto di considerare ancora una volta la nostra prima esperienza, quella della meraviglia per l’esistenza del mondo, e permettetemi di descriverla in modo leggermente diverso. Sappiamo tutti cosa nella vita ordinaria verrebbe chiamato “un miracolo”. Ovviamente si tratta semplicemente di un evento come non ne abbiamo mai visto uno. Ora, supponete che accadesse un evento del genere. Prendete il caso che a uno di voi crescesse all’improvviso una testa di leone e che egli iniziasse a ruggire. Certamente non si potrebbe immaginare una cosa più straordinaria di questa. Ora, non appena ci fossimo riavuti dalla sorpresa, ciò che io suggerirei sarebbe di chiamare un dottore e fare in modo che il caso venga esaminato scientificamente. Se ciò non volesse dire fargli del male, vorrei che egli venisse vivisezionato. E allora il miracolo che fine farebbe? È chiaro infatti che tutto ciò che v’è di miracoloso nella cosa scompare quando guardiamo a essa in questo modo; a meno che ciò che intendiamo con questo termine sia solo che un fatto non è ancora stato spiegato dalla scienza, il che a sua volta significa che finora non siamo riusciti a categorizzare questo fatto insieme ad altri in un sistema scientifico. Questo mostra che è assurdo dire: “La scienza ha provato che i miracoli non esistono”. La verità è che il modo scientifico di guardare a un fatto non è il modo in cui si guarda a esso come a un miracolo. Qualunque fatto che possiate immaginare, infatti, non è in se stesso miracoloso nel senso assoluto di questo termine. Adesso vediamo infatti che finora abbiamo impiegato la parola “miracolo” in un senso relativo e in uno assoluto. E così posso descrivere l’esperienza di meravigliarsi dell’esistenza del mondo dicendo: si tratta dell’esperienza di vedere il mondo come un miracolo. Ebbene, sono tentato di dire che l’espressione corretta nel linguaggio per il miracolo dell’esistenza, benché non sia alcuna proposizione ''nel'' linguaggio, è l’esistenza stessa del linguaggio. Ma cosa significa dunque essere consapevoli di questo miracolo in alcuni momenti e non in altri? Traslando l’espressione del miracolo da un’espressione ''per mezzo del'' linguaggio all’espressione ''grazie all’esistenza del'' linguaggio, infatti, non ho detto altro se non che non possiamo esprimere ciò che vogliamo esprimere e che tutto ciò che ''diciamo'' su ciò che è miracoloso in senso assoluto rimane nonsenso.


Ora la risposta a tutto ciò sembrerà perfettamente chiara a molti di voi. Voi direte: be’, se certe esperienze ci inducono costantemente nella tentazione di attribuir loro una qualità che chiamiamo valore e importanza assoluti, o etici, questo mostra semplicemente che con queste parole ''non'' intendiamo qualcosa di insensato, che dopo tutto ciò che intendiamo dicendo che un’esperienza ha valore assoluto è ''solo un fatto come altri fatti'' e che tutto questo si riduce alla conclusione che non siamo ancora riusciti a trovare l’analisi logica corretta di ciò che intendiamo con le nostre espressioni etiche e religiose. Ora, quando mi viene proposta questa considerazione io improvvisamente vedo chiaramente, quasi in un lampo di luce, non solo che nessuna descrizione che io possa immaginare sarebbe adeguata allo scopo di descrivere ciò che intendo con “valore assoluto”, ma che respingerei ogni descrizione dotata di significato che chiunque potrebbe mai suggerire, ''ab initio'', proprio sulla base del suo avere significato. Ciò è a dire: ora vedo che queste espressioni insensate non erano insensate perché non avevo ancora trovato le espressioni corrette, ma che la loro insensatezza era la loro essenza stessa. Non volevo in effetti far altro, con esse, che ''andare oltre'' il mondo e ciò è a dire oltre il linguaggio dotato di significato.
Ora la risposta a tutto ciò sembrerà perfettamente chiara a molti di voi. Voi direte: be’, se certe esperienze ci inducono costantemente nella tentazione di attribuir loro una qualità che chiamiamo valore e importanza assoluti, o etici, questo mostra semplicemente che con queste parole ''non'' intendiamo qualcosa di insensato, che dopo tutto ciò che intendiamo dicendo che un’esperienza ha valore assoluto è ''solo un fatto come altri fatti'' e che tutto questo si riduce alla conclusione che non siamo ancora riusciti a trovare l’analisi logica corretta di ciò che intendiamo con le nostre espressioni etiche e religiose. Ora, quando mi viene proposta questa considerazione io improvvisamente vedo chiaramente, quasi in un lampo di luce, non solo che nessuna descrizione che io possa immaginare sarebbe adeguata allo scopo di descrivere ciò che intendo con “valore assoluto”, ma che respingerei ogni descrizione dotata di significato che chiunque potrebbe mai suggerire, ''ab initio'', proprio sulla base del suo avere significato. Cioè: ora vedo che queste espressioni insensate non erano insensate perché non avevo ancora trovato le espressioni corrette, ma che la loro insensatezza era la loro essenza stessa. Non volevo in effetti far altro, con esse, che ''andare oltre'' il mondo, e cioè oltre il linguaggio dotato di significato.


Tutta la mia tendenza, e, credo, la tendenza di tutti gli uomini che hanno mai provato a scrivere o a parlare di etica o di religione consisteva nell’andare a sbattere contro i limiti del linguaggio. Questo andare a sbattere contro i limiti della nostra gabbia è perfettamente, assolutamente disperato. L’etica, nella misura in cui nasce dal desiderio di dire qualcosa circa il senso ultimo della vita, il bene assoluto, il valore assoluto, non può essere una scienza. Ciò che essa dice non aggiunge alcunché alla nostra conoscenza, in alcun senso. Ma è un documento di una tendenza della mente umana che io personalmente non posso fare a meno di rispettare profondamente, e che non vorrei ridicolizzare per nulla al mondo.
Tutta la mia tendenza, e, credo, la tendenza di tutti gli uomini che hanno mai provato a scrivere o a parlare di etica o di religione consisteva nell’andare a sbattere contro i limiti del linguaggio. Questo andare a sbattere contro i limiti della nostra gabbia è perfettamente, assolutamente disperato. L’etica, nella misura in cui nasce dal desiderio di dire qualcosa circa il senso ultimo della vita, il bene assoluto, il valore assoluto, non può essere una scienza. Ciò che essa dice non aggiunge alcunché alla nostra conoscenza, in alcun senso. Ma è un documento di una tendenza della mente umana che io personalmente non posso fare a meno di rispettare profondamente, e che non vorrei ridicolizzare per nulla al mondo.